La Parola del secondo grado nel Rito Scozzese Rettificato

Davanti al Tempio di Salomone, a lato dell’ingresso d’Occidente, il re Salomone fece erigere due Colonne di bronzo dal forte senso simbolico. Così dice Ruggiero Di Castiglione:

La colonna di destra (Jakin) evoca, infatti, l’idea di «solidità»; mentre quella di sinistra (Boaz), l’idea di «forza». L’unione dei due nomi indica «stabilità».[1]

La storia della costruzione del Tempio e delle Colonne è narrata nella Bibbia, precisamente nel primo libro dei Re[2]:

Fuse due colonne di bronzo, ognuna alta diciotto cubiti e dodici di circonferenza. Fece due capitelli, fusi di bronzo, da collocarsi sulla cima delle colonne; l’uno e l’altro erano alti cinque cubiti.

Fece due reticoli per coprire i capitelli che erano sopra le colonne, un reticolato per un capitello e un reticolato per l’altro capitello. Fece melagrane su due file intorno al reticolato per coprire i capitelli sopra le colonne; allo stesso modo fece per il secondo capitello. I capitelli sopra le colonne erano a forma di giglio. C’erano capitelli sopra le colonne, applicati alla sporgenza che era al di là del reticolato; essi contenevano duecento melagrane in fila intorno a ogni capitello. Eresse le colonne nel vestibolo del tempio. Eresse la colonna di destra, che chiamò Iachin ed eresse la colonna di sinistra, che chiamò Boaz. Così fu terminato il lavoro delle colonne.[3]

Qui ci occuperemo del significato della Colonna Boaz e del suo nome, il quale è anche la Parola del grado di Compagno[4].

Come si diceva, Boaz (o Booz) significa “forza” o “in forza”. Essa rappresenta una delle virtù necessarie alla pratica iniziatica. In questo grado, però, la forza non appartiene ancora all’Iniziato, ma risiede nella Colonna, nel Tempio. Il Compagno, quindi, si deve appoggiare, per il suo lavoro, alla Loggia e all’Ordine e non ha ancora gli strumenti necessari a camminare da solo. A riprova di ciò ricordiamo che nel Rito Scozzese Rettificato ogni grado corrisponde a una delle sette virtù. La Fortezza, a cui la Parola del secondo grado sembra collegarsi, è la virtù del quarto grado (Maestro Scozzese di Sant’Andrea), ultimo dei gradi strettamente massonici di tale Rito. Il Fratello che abbia raggiunto quel grado ha tutti gli strumenti necessari per muoversi autonomamente e indipendentemente sul piano dei Piccoli Misteri, avendo completato la parte muratoria del percorso connesso alle quattro Virtù Cardinali. Da queste basi potrà partire per ascendere verso la realizzazione dei Grandi Misteri.

La Fortezza è messa come ultima delle Virtù Cardinali da realizzare in sé perché essa necessita delle altre per poter agire nel modo corretto. Senza la guida delle altre tre (Giustizia, Temperanza, Prudenza) la Fortezza rischia di divenire forza bruta, violenta, trasformandosi da Virtù in vizio. Il Compagno ha come Virtù la Temperanza: egli, accudito e aiutato dalla forza della Loggia e della Massoneria tutta, dovrà imparare a placare le passioni, a incanalarle in modo costruttivo, a trovare quel “giusto mezzo” tra gli opposti che diviene sintesi tra gli stessi.

C’è però un altro aspetto da considerare, che è tipico del Rito Scozzese Rettificato e di lui solo (in ambito massonico). Ai significati della Parola del secondo grado Martinez de Pasqually aggiunge un significato ulteriore, attribuendola, come nome proprio, a uno dei figli di Caino. Prima di addentrarci nel racconto martinezista segnalo che anche nella Bibbia c’è un personaggio di nome Boaz (o Booz). Si tratta di un antenato del Re Davide (e quindi di Gesù di Nazareth). Lo incontriamo nel Libro di Rut, dove si narra la storia della moabita Rut, vedova di un uomo ebreo che si era trasferito nel regno di Moab, che alla morte del marito decide di seguire la suocera, Noemi, e vivere in Israele. Giunta lì, mentre spigola, Rut incontra Booz, suo futuro marito:

Noemi aveva un parente del marito, uomo potente e ricco della famiglia di Elimèlech, che si chiamava Booz. Rut, la Moabita, disse a Noemi: «Lasciami andare per la campagna a spigolare dietro a qualcuno agli occhi del quale avrò trovato grazia». Le rispose: «Va’, figlia mia». Rut andò e si mise a spigolare nella campagna dietro ai mietitori; per caso si trovò nella parte della campagna appartenente a Booz, che era della famiglia di Elimèlech. Ed ecco Booz arrivò da Betlemme e disse ai mietitori: «Il Signore sia con voi!». Quelli gli risposero: «Il Signore ti benedica!». Booz disse al suo servo, incaricato di sorvegliare i mietitori: «Di chi è questa giovane?». Il servo incaricato di sorvegliare i mietitori rispose: «È una giovane Moabita, quella che è tornata con Noemi dalla campagna di Moab. Ha detto: Vorrei spigolare e raccogliere dietro ai mietitori. È venuta ed è rimasta in piedi da stamattina fino ad ora; solo in questo momento si è un poco seduta nella casa».[5]

Torniamo al Martinez de Pasqually. Per l’autore settecentesco “Boaz” è il nome del decimo figlio di Caino:

Caino era un grand’uomo di caccia, egli aveva ugualmente allevato tutti i suoi figli maschi alla caccia, e soprattutto il suo decimo figlio sul quale aveva posto tutto il suo attaccamento. Egli non diede a questo suo figlio altro talento che quello della caccia, essendo gli altri suoi figli più portati ai lavori d’immaginazione ed alle opere manuali. Caino diede a questo decimo figlio il nome di Boaz, o Booz, che vuol dire figlio d’uccisione.[6]

Il significato dato dal Martinez de Pasqually al nome Boaz non trova riscontro nella tradizione massonica che non sia di Rito Scozzese Rettificato. Inoltre, questo figlio di Caino non compare nelle Scritture, essendo Enoch l’unico figlio citato[7]. Questo, però, non cambia la profondità e il valore dottrinale delle tesi martineziste, che provengono da un filone iniziatico di grande spessore. Cerchiamo quindi di analizzare la cosa alla luce delle dottrine di tale filone.

Booz è il decimo figlio di Caino. Il dieci è numero divino, che indica il compimento della via. Il decimo figlio, quindi, è il compimento del destino e del tipo di Caino, ovvero il compimento della prevaricazione e della distruzione. Non a caso è lui a causare la fine di suo padre.

Sia Booz che Caino decidono di fare una battuta di caccia, l’uno all’insaputa dell’altro, nello stesso luogo:

Essi partirono dunque insieme per andare a caccia, ma Booz, senza saperlo, prese la stessa strada di suo padre Caino e, essendo tutti e due in un macchione che erano abituati a battere, Booz scorse l’ombra di una figura attraverso questo macchione chiamato Onam, che vuol dire dolore. Booz spiccò allora una freccia che andò a penetrare il cuore di suo padre, avendolo preso per una bestia feroce. Giudicate della sorpresa e del fremito di Booz, allorché fu sul posto dove aveva tirato il suo colpo di freccia e vide suo padre ucciso dalla sua propria mano. Il dolore di Booz fu tanto più grande in quanto sapeva la punizione e la minaccia che il Creatore aveva lanciato contro colui che avesse colpito la persona di Caino[8]. Sapeva che colui che avesse avuto questa sventura sarebbe stato colpito sette volte da pena mortale, o sarebbe stato punito sette volte di morte.[9]

Questi fatti hanno un’importanza particolare essendo essi del tipo della profezia:

Ciò che forma realmente il tipo di profezia, è che l’incontro delle due persone, Caino e Booz, non è premeditato e che l’uno e l’altro si sono trovati senza sapere, nel luogo in cui Caino ricevette il colpo mortale.[10]

Il più profondo valore simbolico del racconto martinezista è comprensibile solo alla luce del terzo grado e non lo affronteremo qui.

Mi limiterò a indicare nella figura di Booz il rischio che l’Iniziato corre nel suo lavoro. Se egli non resterà sulla retta via dello spirito, indulgendo nei vizi e lasciandosi dominare dalle passioni, non potrà che finire con l’incarnare il tipo del prevaricatore e lavorare alla sua stessa fine. Ricordiamo il discorso fatto in precedenza sulla Forza (o Fortezza) e il suo utilizzo. Booz è colui che usa la forza senza essere guidato dalle Virtù. In lui agiscono le passioni dell’intelletto demoniaco, le voci degli spiriti perversi che si sono resi colpevoli della prima prevaricazione. Non a caso egli è l’unico figlio ad avere il solo talento della caccia, espresso alla massima potenza, ovvero un talento violento e distruttivo. Egli lo usa in modo cieco, inconsapevole, e questo porta all’omicidio di suo padre. Se, infatti, agiamo senza consapevolezza, data dalla pratica delle Virtù e dal costante lavoro iniziatico, non possiamo prevedere le conseguenze e imboccheremo la strada contro-iniziatica che porta verso il basso, verso i vizi. In tal senso l’uccisione del padre rappresenta il distacco dallo Spirito, la colpa primordiale, o peccato originale, che ha gettato l’Uomo in questo mondo di materia, dove non gli è più dato di vedere Dio. Il compito dell’Iniziato è quello di sfuggire ai cicli distruttivi dell’intelletto demoniaco per ascendere e giungere alla Reintegrazione. Il Compagno in particolare deve lavorare facendo affidamento sulla Forza della Loggia e della Massoneria, ben meditando i simboli del suo grado e il loro senso, e tenendo sempre presente l’esempio di Booz, figlio di Caino, affinché gli sia di monito.

Enrico Proserpio

[1] Ruggiero Di Castiglione, Alle sorgenti della Massoneria, editrice Atanòr, 1988, pagina 155.

[2] Della costruzione del Tempio di Salomone si parla anche nel Primo Libro delle Cronache, capitolo 22, e nel Secondo Libro delle Cronache, capitolo 3.

[3] Primo Libro dei Re, capitolo 5, versetti 15 – 22, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Non in tutti i Riti Boaz è Parola Sacra del secondo grado. In altri Riti (RSAA, Emulation…) essa è Parola Sacra del primo grado. In questa Tavola si segue la simbologia del Rito Scozzese Rettificato.

[5] Libro di Rut, capitolo 2, versetti 1 – 7, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 99.

[7] Se ne parla in Genesi, capitolo 4, versi 17 – 18.

[8] Si veda Genesi, capitolo 4.

[9] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 100.

[10] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 101.

Ona Vision: poesia di Carlo Porta

Qualche tempo fa, girando per negozi, mi capitò sotto mano un libro di poesie di Carlo Porta, poeta milanese vissuto a cavallo tra il XVIII e XIX secolo. Nello sfogliare, una poesia in particole attirò la mia attenzione. Era una delle poche poesie di Porta che ancora non conoscevo e, quindi, mi misi subito a leggerla. Con mia sorpresa scoprii che riguardava la Massoneria e quindi decisi di scriverci un articolo. Prima di tutto, però, presentiamo l’autore.

N.B. Per chi volesse solo leggere la poesia, testo e traduzione sono linkati in fondo all’articolo.

Carlo Porta

Carlo Porta (15 giugno 1775 – 5 gennaio 1821) è ritenuto il più grande poeta che abbia scritto in milanese. Le sue opere, ammirate e lodate da molti, tra cui lo scrittore francese Stendhal, sono per lo più componimenti ironici, spesso narranti storie, dal contenuto sociale e politico. La sua educazione, avvenuta

Il poeta Carlo Porta.

nella scuola dei Barnabiti a Monza prima e in seminario poi, lasciò nel suo spirito un profondo anticlericalismo che il poeta non esitò mai a esprimere. I preti sono, infatti, le vittime preferite della sua satira, accompagnati, solitamente, dagli aristocratici.

Illuminista, colto, Massone, anticlericale, libertario, il Porta attacca con la sua penna i vizi delle classi dominanti, denunciandone il bigottismo, l’ipocrisia e il perbenismo.

Esempio eccellente della sua critica anti-aristocratica è “La preghiera” di cui riporto i primi versi:

 

Donna Fabia Fabron De Fabrian

l’eva settada al foeuch, sabet passaa,

col pader Sigismond, ex franzescan,

che intrattant el ghe usava la bontaa

– intrattanta, s’intend, ch’el ris coseva –

de scoltà sto discors che la faseva:

 

Donna Fabia Fabrone di Fabriano

era seduta al fuoco, sabato scorso,

con padre Sigismondo, ex francescano,

che intanto le usava la bontà

– intanto, si intende, che il riso cuoceva-

di ascoltare questo discorso che lei faceva

Ecco comparire qui la figura del religioso interessato più a scroccare da mangiare alla ricca signora che non alla sua “salute spirituale”. Il Porta sottolinea il carattere del prete con quel “ex francescan” che ci fa capire come egli abbia preferito la comodità e il buon cibo delle tavole nobiliari alla povertà dei francescani. E intanto che il riso cuoce, padre Sigismondo ascolta il discorso di Donna Fabia.

La nobildonna racconta di essere andata un giorno in chiesa e di essere caduta scendendo dalla carrozza. Un gruppo di poveri, davanti allo spettacolo della caduta, non aveva esitato a prenderla in giro con risa e sberleffi. La donna, con fare superiore, si alza ed entra in chiesa dove recita al Signore la sua preghiera che inizia così:

Mio caro e buon Gesù, che per decreto

dell’infallibil vostra volontà

m’avete fatta nascere nel ceto

distinto della prima nobiltà,

mentre poteva, a un minim cenno vostro,

nascer plebea, un verme vile, un mostro;

Vediamo dunque tutto il disprezzo che la nobildonna ha per il popolo, disprezzo che il Porta sottolinea in diverse opere. In “La nomina del capelan” (la nomina del cappellano), opera che narra la selezione di un nuovo prete di corte da parte di una ricca marchesa, il poeta torna a descrivere l’opportunismo dei preti e l’arroganza e supponenza dei nobili. Basti qui un piccolo estratto:

 

Che, in fin di fatt, se in cà de donna Paola

no gh’era per i pret on gran rispett,

almanca gh’era on fioretton de taola,

de fa sarà su on oeucc su sto difett,

minga domà a on galupp d’on cappellan,

ma a paricc di teolegh de Milan.

Che, in fin dei conti, se in casa di donna Paola

non c’era per i preti un gran rispetto,

almeno c’era un fior di tavola,

da far chiudere un occhio su questo difetto

non solo a un miserabile cappellano,

ma a parecchi dei teologi di Milano.

Non solo preti e aristocratici, però, popolano le poesie del Porta. Anche il popolo trova spazio nella sua poetica. Diversi sono i personaggi popolari a cui il Porta dà voce, spesso in lunghi monologhi. Dal povero vessato dai potenti (Desgrazi de Giovannin Bongee), alla prostituta che racconta la sua storia (La Ninetta del Verzee): persone misere, indifese davanti al potere, che il Porta stima più dei potenti stessi. Questi personaggi, per quanto divertenti, sono sempre descritti con occhio bonario e comprensivo, diversamente da nobili e religiosi.

Oltre che negli ideali, il Porta è moderno anche nello stile. Le sue opere, spesso in sestine a verso libero, sposano appieno lo stile del romanticismo, nascente corrente letteraria che informerà di sé molta letteratura del XIX secolo. E da buon poeta romantico non può esimersi dal partecipare alla contesa tra romantici e neoclassici. Nella poesia “El romanticismo” egli si rivolge a Madame Bibin per spiegarle l’essenza del romanticismo stesso e smentire tutte le brutte cose che certa gente andava dicendo di chi aderisce a questa corrente (si diceva, da parte neoclassica, che i romantici fossero libertini edonisti, dediti solo ai piaceri). Al Porta risponde Carlo Gherardini, poeta neoclassico, con un componimento dal titolo “La risposta di Madam Bibin”. E proprio il Gherardini è il nemico giurato del Porta. I due continueranno a stuzzicarsi a distanza, in un gioco di battibecchi poetici, dai toni, a volte, piuttosto forti. In un sonetto intitolato “Alla musa del sur G.” (Alla musa del signor G.) il Porta definisce l’avversario “Ciolla! Cojon! Sonaj! Morbo! Strument!”, i primi tre termini essendo traducibili con “coglione” e gli altri due significando “morbo, malattia” e “strumento, oggetto senza intelligenza”.

Concludiamo dicendo che il Porta ebbe, a suo tempo, contatti con i più grandi letterati tra cui Ugo Foscolo, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet, Alessandro Manzoni… inserendosi a pieno diritto nel clima di vivacità artistica e intellettuale dell’epoca. L’uso del dialetto ha purtroppo limitato la diffusione delle sue opere, difficilmente comprensibili da chi non conosca, e bene, il dialetto milanese, ma ha al contempo donato loro una vivacità e un colore che difficilmente l’italiano potrebbe dare.

Ona vision

Veniamo ora alla nostra poesia. “Ona vision” fu scritta nel 1812 e si inserisce tra le opere satiriche che attaccano clero e nobiltà. La scena si svolge a casa di due sorelle aristocratiche che si intuisce essere zitelle. Con loro ci sono Don Pasquale e il teologo e canonista Don Diego. Don Pasquale sonnecchia davanti al fuoco, brontolando e russando, dopo aver lautamente mangiato. Nessuno però lo disturba, poiché si dice che durante il sonno egli abbia visioni mandate da Dio. Le sorelle pregano sottovoce, chiedendo alla bontà divina di sterminare tutti coloro che si permettono di disturbare i preti mentre dormono. Ma il sonno è agitato e le donne si preoccupano che qualche terribile visione possa far passare al sacerdote la fame per la merenda.

Don Diego, intanto, partecipa alle preghiere, interrompendosi di tanto in tanto per recitare alcune parti del breviario rimaste indietro.

Finalmente Padre Pasquale si sveglia e racconta la visione avuta. Era in Paradiso, e c’erano tanti Santi e Beati da poter far da tappeto al Paradiso stesso.

Le donne chiedono subito se, per caso, abbia visto qualche loro cugina o parente, ma il sacerdote dice di no. In compenso, dice di aver visto molte persone famose, tra cui Giuseppe Parini, Pietro Metastasio e altri celebri personaggi di cui vari in odor di Massoneria.

Le marchesine sono scandalizzate! Com’è possibile che dei Massoni siano in Paradiso? Non sa forse Don Pasquale che solo a conversare con loro si incappa nella scomunica papale?

Per il veggente le cose sembrano mettersi male: potrebbe rischiare addirittura di essere bandito dalla casa e dalla tavola delle due dame!

Per fortuna in suo soccorso viene Don Diego, che da teologo e canonista quale è, salva Don Pasquale dal suo funesto destino con un mirabile gioco di filosofia, che lascio a voi scoprire.

Potete scaricare la poesia con la mia traduzione al link sottostante:

Ona vision, poesia di Carlo Porta

Enrico Proserpio

 

La caduta dell’uomo e l’origine del sacro

Secondo molte religioni e scuole iniziatiche, all’inizio dei tempi l’uomo viveva in un mondo di perfetta felicità e di perfetto benessere, dove nulla mancava e non esistevano malattie e sofferenze. La Bibbia ci parla dell’Eden, il giardino paradisiaco creato da Dio e prima dimora dell’uomo. Lo stato paradisiaco dell’inizio, spesso definito “età dell’oro”, è destinato però a finire, non ha il carattere dell’eternità. Essendo un mondo di forme, per quanto elevate, non può essere che instabile, perituro, impermanente. Nell’apparente perfezione dell’Eden è presente il seme della caduta e la sua germinazione non è che questione di tempo.

Il mito dell’Eden definisce chiaramente la causa della caduta. Dice il Genesi:

Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.

Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.»[1]

E così accade. Quando Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito e acquisiscono la conoscenza del bene e del male non possono più rimanere nell’Eden e vengono cacciati dall’angelo. La loro condanna è forte e terribile:

Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».

Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».

All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».[2]

Non credo si debba vedere in questo mito della cacciata dal paradiso una volontà violenta di Dio verso la sua creatura. La cacciata, la caduta, è piuttosto l’inevitabile conseguenza della scelta dell’uomo. Adamo ed Eva si allontanano dal divino per la loro voglia di conoscenza e di libertà. Mangiano il frutto per comprendere, credendo a chi diceva loro che sarebbero divenuti pari a Dio. Ma non accade questo. L’uomo diventa conoscitore del mondo, della materia e cade nell’illusione che questo mondo sia quello reale. La forma prende nella coscienza umana il posto dell’essenza, la conoscenza razionale tacita l’intuizione spirituale. La cacciata non è un vero cambiamento di luogo. L’uomo non si sposta in un diverso paese, in un diverso mondo. Cambia piuttosto la visione del mondo dove vive. L’avidità di conoscenza e di potere non permettono più all’uomo di vedere il bello e la ricchezza del mondo, ma pone l’accento sempre e solo su ciò che non si ha, generando una corsa alla materialità e alla forma. Anche la filosofia stessa spesso rincorre la complessità fine a se stessa, l’eleganza effimera dell’accademico, di voli logici privi di reale fondatezza. Senza l’intuizione, senza la guida dello Spirito, la filosofia diventa spessissimo “feticismo logico e linguistico”.

Anche un altro passo riguardante la cacciata è spesso frainteso:

Il Signore Dio disse allora: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto.[3]

Si potrebbe, a una lettura superficiale, pensare che Dio cacci l’uomo per punizione e per non avere un essere suo pari che possa contendergli il primato di Signore dell’Universo. Non è così. La conoscenza ha oscurato la coscienza umana sprofondandola nel mondo delle forme. Se l’uomo mangiasse anche del frutto della vita e divenisse immortale sarebbe condannato a vivere eternamente nella prigione di materia, limite e sofferenza che si è creato da solo. Con la cacciata dal paradiso, Dio tutela l’uomo come un padre tutela il figlio sgridandolo quando compie un gesto non corretto.

Un concetto simile alla cacciata dall’Eden per aver acquisito la conoscenza lo si ritrova anche in un testo precedente alla Bibbia: la Saga di Gilgamesh. In essa si narra che Enkidu, per due terzi divino e per uno umano, come il re Gilgamesh, e creato per tenergli testa, sia un essere bestiale, privo della ragione. Gilgamesh, compreso che Enkidu può essere per lui pericoloso, decide di giocare d’astuzia e così gli manda la prostituta sacra Shamkat che con il sesso trasmette la civiltà a Enkidu. Dopo il rapporto, egli non viene più riconosciuto dalle belve, divenendo un escluso dal paradiso, dallo stato primordiale. Anche qui la conoscenza provoca una caduta necessaria alla crescita successiva.

La caduta non riguarda solo l’uomo. Riguarda anche Dio stesso. Con la creazione egli rinuncia alla sua onnipotenza. Nel momento stesso in cui crea un “altro da sé”, perde il controllo, almeno parzialmente. L’Antico Testamento vede spesso profeti mandati ad avvertire il popolo eletto delle conseguenze della loro disobbedienza. L’uomo ha il libero arbitrio e questo è necessario a Dio per avere una controparte, una creatura indipendente da amare per poter egli stesso, grazie a tale Amore, perfezionarsi.

La caduta implica anche la perdita dell’armonia iniziale e del contatto con lo spirito delle cose e degli altri viventi, la perdita del contatto intimo con quella che, poeticamente, è stata definita “anima del mondo”. E poiché, attraverso di essa, cuore pulsante del creato, l’uomo poteva congiungersi a Dio, con la perdita dell’armonia, l’uomo non ha più la comunione col Creatore. Ma non tutto è perduto.

L’uomo, decaduto in un mondo sporcato dalla materialità, in una realtà di ordine inferiore a quella originaria, cerca una via, un modo, per riavvicinarsi a Dio. E per farlo crea la sacralità. Poiché il suo corpo materiale, la sua forma imperfetta, pone limiti netti, pesanti e difficili da superare, egli deve creare degli strumenti, dei mezzi per superarli. Tali strumenti sono di diverso tipo, ma servono a raggiungere lo stesso scopo.

Possiamo immaginare il Tutto come una ruota. Dal centro della ruota, dal perno intorno al quale tutto gira (il Divino) promana l’Universo. Il cerchio periferico della ruota rappresenta il mondo materiale dove l’uomo vive. I raggi sono le Vie che collegano il Divino all’umano. Su tali vie lo spirito si muove dal centro alla periferia e dalla periferia al centro. Ogni raggio della ruota rappresenta un percorso, una forma di sacralità differente, iniziatica o religiosa che sia.

La sacralità segna una via nel mondo, ma al contempo è esterna al mondo. Essa è fatta di gesti, simboli e pratiche che separano lo spazio sacro (non solo lo spazio fisico, ma anche lo spazio umano, mentale) da quello profano per permettere quella trascendenza che altrimenti si perderebbe nel tumulto delle forme.

Non tutti i percorsi creati dall’uomo sono paritetici e danno le stesse possibilità. Per poter servire allo scopo della trascendenza il percorso deve avere alcuni elementi. Prima di tutto il percorso deve essere basato su una dottrina, su una filosofia che affronti lo spirituale in modo il più possibile completo. Per quanto infatti la sacralità crei uno spazio privilegiato, non si può pensare che ci sia una frattura netta tra ciò che è sacro e ciò che sta fuori. Considerare come separati i due aspetti e pensare che il mondo profano, e ciò che si fa in esso, non abbia nessuna influenza sul sacro e sul percorso spirituale non può che portare al fallimento, al distacco dalla realtà. Non a caso i percorsi spirituali seri (e tradizionali) hanno un sistema etico e una filosofia pratica da seguire nella vita di tutti i giorni. Questo aspetto è importante sia per le sue implicazioni sulla vita della persona e, in definitiva, sull’Umanità, sia perché questo è il primo passo, l’inizio di quasi tutti i percorsi.

L’aspetto etico è una base importante, ma non è che la porta d’ingresso (o una delle porte) della sacralità. Lo scopo vero, infatti, è la trascendenza e la riunificazione col Divino. Questo lo si ottiene attraverso delle pratiche che portino le diverse parti dell’essere umano (mente, anima, spirito…) a fondersi, a unificarsi nell’armonia. Per farlo l’uomo ha creato simboli, rituali e regole. Questi esprimono la dottrina del percorso di cui fanno parte, ma hanno anche un valore superiore, una potenza spirituale che va oltre il significato razionale e filosofico. I simboli hanno una carica che si coglie attraverso l’intuizione e che non può essere compresa pienamente. Essi rappresentano e riassumono la totalità del mondo e permettono all’uomo di tornare a intuirne la grandezza, la vera essenza. Proseguendo nel percorso l’uomo abbandona gradualmente le cose in eccesso, i concetti inutili, i “feticismi filosofici e linguistici” e si purifica fino a ritrovarsi. L’Adepto (o il Santo) sono uomini realizzati, che non hanno più bisogno del percorso perché hanno superato le forme, tanto profane quanto sacre. Nell’Adepto, profano e sacro non hanno più senso, non hanno distinzione. Tutto è ritornato all’armonia e all’unità originarie.

La sacralità ha il potere di sfruttare la divisione per portare all’unità. Con la caduta l’uomo non è più unito al Tutto, ma è separato, diviso. Egli percepisce, nella sua illusione, l’altro (perfino l’altro uomo) come qualcosa di diverso, di distaccato. Il sacro però torna a creare unità, ponendo coloro che fanno lo stesso percorso in una fratellanza di intenti che è anche reale unione nello spirito. Questa fratellanza, che è esclusiva in quanto riguarda solo coloro che hanno intrapreso un certo tipo di via, è la pallida e sbiadita immagine dell’unità originaria. In origine, lo stato spirituale della persona era assoluto, integro, totale. Con la caduta diviene relativo, legato ai rapporti con l’altro che è tale solo per l’illusione della separazione. La sacralità è per forza questione di rapporti con il mondo e gli esseri umani. Perfino le pratiche ascetiche degli eremiti che vivono in totale solitudine e isolamento sono in realtà “sociali”. L’eremita è tale proprio in relazione alla società, all’insieme degli uomini e delle donne che vivono nel mondo. La scelta di isolamento e solitudine è sempre fatta in considerazione della società. L’uomo non esiste di per sé, ma è parte di qualcosa di più grande: l’Umanità. Essa non va intesa solo in senso sociologico o antropologico, ma in senso mistico, come essere unico anche se incosciente della sua stessa unità. Scrive Paul Evdokimov:

Quando i Padri [della Chiesa] si riferiscono alla caduta usano una immagine molto familiare, quella dell’integrità «frantumata in mille pezzi a causa del peccato». Nella sua infinita pazienza Iddio trascorre il suo tempo «incollando di nuovo» le particelle disperse per ricostituire l’unità iniziale.[4]

Come si diceva, non tutte le forme di sacralità sono identiche e di pari valore. Non condivido ciò che sosteneva René Guénon secondo il quale le vie moderne e create di recente non avrebbero valore e sarebbero da ritenersi solo pseudo-iniziatiche. Ogni caso va valutato singolarmente. Quel che però condivido con l’autore francese è il rispetto della Tradizione e la sua valorizzazione. Le vie tradizionali danno maggiore garanzia per vari motivi. Prima di tutto la loro durata ne prova, in certo qual modo, la serietà. Molti sono i movimenti o le sette che nascono e finiscono in poco tempo senza lasciare traccia. Inoltre, col tempo, le vie tradizionali si sono via via arricchite dell’apporto sia filosofico che spirituale e “pneumatico” di coloro che le hanno seguite. Pensiamo solo alla grande quantità di scritti mistici o teologici del Cristianesimo o di altre religioni come l’Induismo o il Buddhismo. Questa ricchezza garantisce anche una completezza del percorso, una possibilità maggiore di trovare gli strumenti adatti alla propria realizzazione spirituale. Le vie nuove, non legate a una tradizione, sono tutte da costruire e quindi incerte.

Profano e sacro, dunque, sono solo concetti umani che l’uomo deve superare nella sua ascesa. Il dualismo è la prima grande illusione dovuta alla caduta, una illusione che ci ingabbia in concetti e parametri limitanti. Il mondo, divenuto profano, non ha altro da offrire che limiti, illusione e falsità. Ma l’uomo è stato capace di creare, con l’aiuto dello Spirito, delle strade per fuggire da tutto ciò, sfruttando proprio quelle forme, quelle illusioni e dando loro un senso e un potere nuovo. Riducendo la complessità e la grandezza del creato in uno spazio simbolico e limitato, il sacro riesce, paradossalmente, a raggiungere l’infinito sfuggendo alla confusione e alla vertigine che coglie colui che, impreparato, si sporga sull’abisso cosmico dell’Universo. I limiti del profano sono imposti dal di fuori e sono dei freni alla nostra ascesa. I limiti del sacro sono auto-imposti e servono da indicazione, da strada e da guida alla trascendenza. Il punto di arrivo è al di fuori sia del profano che del sacro, poiché tali categorie appartengono al mondo delle forme e la meta è, al contrario, essenza.

Un ultimo punto è fondamentale. Le diverse sacralità portano tutte verso lo stesso centro, ma sono strade differenti. Spesso si sente dire che le varie religioni sono uguali l’una all’altra, che dicono le stesse cose anche se con parole diverse. Non è così. Ogni religione ha il proprio modo di vivere e concepire il Divino e la sacralità e, per quanto possa avere cose in comune con le altre, resta pur sempre unica. L’atteggiamento, sempre più diffuso purtroppo, di seguire più vie contemporaneamente, anche se tra loro molto distanti, crea spesso confusione e non porta a nulla di buono. Si rischia di divenire banderuole che si muovono al vento delle ultime novità o della moda. Non escludo certo la possibilità di seguire diversi percorsi. È però opportuno fare delle scelte, seguire vie che siano vicine l’una all’altra. Personalmente pratico la Massoneria e il Martinismo a livello iniziatico e il Cristianesimo Ortodosso a livello religioso. Questi tre filoni derivano comunque dalla spiritualità dell’Occidente giudaico-cristiano e come tali sono affini e compatibili. Altro discorso sarebbe seguire, per esempio, l’Ortodossia e il Voodoo contemporaneamente. Si tratta di due vie incompatibili tra loro. Fare un’abbuffata di Iniziazioni e di vie iniziatiche e religiose è un atteggiamento che manca di rispetto al sacro e tratta la spiritualità come se fosse un bene di consumo e l’Iniziazione come una figurina da aggiungere all’album. E questo è molto, molto profano.

Enrico Proserpio

[1] Genesi, capitolo 2, versetti 15 – 16, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[2] Genesi, capitolo 2, versetti 14 – 19, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[3] Genesi, capitolo 3, versetti 22 – 23, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Paul Evdokimov, L’ortodossia, Edizioni Dehoniane Bologna, 2010, pagina 135.